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Non amo il termine overtourism. Trovo sia spesso abusato e utilizzato a torto per descrivere situazioni di sovraffollamento in momenti ben definiti e soprattutto trovo che il cuore del problema non stia nei dei flussi (volendo gestibili), ma nella crisi del tessuto socio-culturale che ne deriva e che lo autoalimenta rendendo i grandi numeri una necessità.

Viaggiare è e deve essere uno scambio, sempre. Lo scambio economico, culturale e sociale e il rapporto tra la comunità ospitante e i turisti devono dar luogo a un rapporto win-win per garantire equilibrio, continuità e sì, anche crescita.

Sentiamo sempre più spesso l’espressione “questa destinazione non è Disneyland”, ma la chiave per imparare a gestire flussi e spazi sta proprio lì, attraverso una valutazione lucida e collaborativa del singolo caso-specifico e dei molteplici fattori in azione, delegando strategia e decisioni a un team che possa lavorare però autonomamente, proprio come quando si è chiamati a gestire un parco Disney in una data destinazione ed è così che ad esempio Dubrovnik ha risolto i problemi di sovraffollamento e sta ora puntando all’ottimizzazione dei servizi e dei ricavi. Di questo caso emblematico parlerò però in post dedicato.

La crescita non è il problema; lo è l’effetto che ha sulle persone e il modo in cui viene gestita. Il problema è il fast tourism.

Dove sono cresciuta e vivo, come nella maggior parte delle destinazioni la cui popolarità è esplosa improvvisamente in un contesto di reddito medio basso o comunque modesto, il grande cambiamento-stravolgimento è avvenuto e continua ad avvenire perché il turismo implica in primis “soldi facili”.

Generalizzando (e semplificando), negli ultimi 20 anni, le nuove generazioni hanno smesso di studiare, o non puntano alle carriere per le quali hanno studiato, perché il turismo dei grandi numeri offre lavori tutto sommato facili, nessuna reale competenza richiesta e lunghe vacanze invernali. Più semplice che investire in un’altra professione e altre forme di reddito insomma. Per questi stessi motivi, anche le generazioni precedenti hanno abbastanza rapidamente riconvertito le proprie attività, negozi e atelier per fornire servizi orientati al turismo e i proprietari di beni immobiliari li hanno trasformati in strutture extra alberghiere. Praticamente tutti hanno un’occupazione legata al turismo o hanno figli, partner o nipoti che vivono di quello. Non rimane nient’altro.

Il turismo improvviso a questi livelli è un po’ come l’eroina in voga quando ero ragazzina. Da un lato inebria e dà dipendenza; dall’altro uccide. Fa prosperare, ma in parallelo annulla identità, valori e visione. In piccoli borghi come quelli delle mie origini l’impatto è immediatamente palese, ma poco alla volta lo si nota anche in grandi città, a partire dai centri storici e poi, per duplicazione, in prossimità dei punti di interesse turistico.

Trovare una casa in affitto in qualsiasi destinazione popolare è quasi impossibile, e l’unico modo per gestire questa situazione è forse seguire la strada tracciata da New York con le sue nuove regole applicabili agli affitti brevi. Ma anche così, la popolazione locale avrebbe veramente voglia di tornare a vivere in luoghi presi d’assalto e soprattutto con servizi sempre meno orientati ai residenti? Servizi che in realtà anche i turisti chiedono, ma non vengono più forniti perché meno redditizi e più complicati da gestire.

Inoltre, visti i numeri e i flussi da “destinazione Instagram” che garantiscono, nell’immediato e temporaneamente, grandi entrate, si tende a non avere una vera professionalizzazione del settore, con proprietari e gestori che optano per il regime dei minimi (tassazione semplificata più bassa, ma senza la possibilità di scaricare le spese) rinunciando quindi all’imprenditorialità, che consentirebbe e stimolerebbe investimenti necessari allo sviluppo e alla gestione del turismo stesso.

Se l’emblema del turismo sostenibile è lasciare solo impronte e scattare solo fotografie, la strada da percorrere è ancora lunga e, a parte qualche esempio estremo di pazzi e maleducati (che sarebbero pazzi e maleducati anche a casa loro e la cui tipologia esiste anche presso i residenti), non spetta solo ai turisti cambiare il loro atteggiamento e i loro comportamenti, spetta agli amministratori locali e alla comunità ospitante analizzare con chiarezza la realtà e fare passi avanti (o anche indietro).

Certo è che ridurre i flussi per attirare turisti più stanziali (i villeggianti dei bei tempi passati) implica meno turisti e quindi meno lavoro in contesti in cui oramai tutti vivono di quello e l’offerta è tarata sui grandi numeri e implica anche evidenziare ancora di più l’assenza di servizi e attività commerciali adeguate, perché alla prova dei fatti (e delle lamentele) chi viaggia vuole proprio quello che vuole chi risiede e il dar loro cose diverse è una scelta (imprenditoriale?) più veloce e redditizia, ma errata dal punto di vista della reputazione e quindi probabilmente fallimentare sul lungo termine. Mio nonno avrebbe riassunto con “è un cane che si morde la coda”.

Overtourism, crisi del tessuto sociale e dati

Per un intervento al World Travel Market di Londra (WTM) ho scaricato e analizzato un po’ di dati dalla piattaforma pensata per il management e il marketing delle destinazioni D / AI Destinations e penso possa essere interessante proporli affrontando questo tema.

Il marketing è un ramo dell’economia che si dedica all’analisi e comprensione di un determinato mercato di riferimento. In particolare, il marketing si focalizza sull’indagine dell’interazione del mercato e degli utenti di un’impresa (in questo caso destinazione) al fine di ottimizzare le strategie commerciali e promozionali per raggiungere i propri obiettivi aziendali e gestionali.

Il termine deriva da market cui viene aggiunta la desinenza del gerundio per indicare la partecipazione attiva, cioè l’azione sul mercato stesso da parte delle imprese.

Marketing non è comunicazione o mera promozione insomma.

Nello specifico, ho preso in considerazione alcuni dati del modulo Sustainability, uno strumento che consente di valutare e misurare in modo rapido e semplice quanto sia sostenibile una destinazione. Il modulo, al momento, è basato su quattro pilastri fondamentali e diciotto sotto-indici: il pilastro socio-culturale, quello dell’overtourism, quello della gestione della destinazione e infine il pilastro ambientale.

Overtourism: la crisi del tessuto sociale

Visto il tema e il territorio portato a esempio, vi riporto e lascio valutare i dati dell’Overtourism Pillar, che consente di valutare l’impatto del turismo su una destinazione, considerando vari aspetti critici legati ai flussi e all’offerta per aiutare a monitorare e migliorare la gestione in una determinata area:

  • il Tourism Pressure Index è un indicatore progettato per valutare l’impatto del turismo su una comunità ospitante in base al rapporto tra flusso turistico e densità di popolazione. In altre parole, misura come il numero di turisti in una determinata area influisce sulla vita quotidiana e sull’ambiente dei residenti;
  • il Tourism Supply Pressure Index valuta in che modo l’offerta turistica in una particolare destinazione influisce sulla comunità locale. Questo indice considera il rapporto tra due fattori principali: i punti di interesse (POI) relativi agli affitti brevi e la capacità ricettiva della destinazione rispetto alla densità di popolazione della zona. Più il valore è basso più la pressione dell’offerta turistica sulla comunità ospitante è elevata, il che porta solitamente a problemi quali la congestione e la gentrificazione;
  • l’OTA Intermediary Index misura il grado di intermediazione delle agenzie di viaggio online (OTA). Questo indice fornisce una panoramica del numero di prenotazioni di strutture ricettive (come hotel, case vacanze e B&B) effettuate tramite OTA rispetto al totale delle prenotazioni nell’intera destinazione ed è utile per comprendere meglio le dinamiche delle prenotazioni alberghiere, la strategia distributiva nel settore turistico di una specifica area geografica e anche il grado di imprenditorialità.

Overtourism: la crisi del tessuto sociale

Interessante in ottica di analisi anche un comparativo con lo stesso mese negli anni precedenti, nello specifico 2022 e 2019:

Overtourism: la crisi del tessuto sociale

Overtourism: la crisi del tessuto sociale

L’analisi si può/deve poi ovviamente approfondire e andare a dettagliare, in questo caso per borgo e/o settore specifico, prendendo in considerazione altri periodi dell’anno ecc. e ovviamente comparando criteri, luoghi e dati, ma non è certo un blog post il giusto contesto.

Nelle prossime settimane tornerò ad affrontare il tema proponendovi il caso Dubrovnik, visto insieme a Jelka Tepšić durante BTO, per chi ha partecipato.

P.S. Nel mentre è uscito la “No List 2024” di Fodor’s Travel e il mio piccolo mondo verticale non c’è ancora, proprio perché il sovraffollamento non è costante ed è ancora dovuto principalmente agli escursionisti.

Silvia Moggia

Italo-argentina cresciuta alle Cinque Terre, laureata in Conservazione dei Beni Culturali e specializzata in Francia in Mediazione Culturale e Gestione dello Spettacolo, dopo un anno presso l’agenzia internazionale IMG, ha iniziato a lavorare alla direzione della programmazione e artistica dell’Opéra di Parigi nel 1998 per poi essere nominata direttrice di produzione e programmazione al Palau de les Arts Reina Sofia di Valencia nel 2005. Dal 2011 è tornata in Italia per motivi familiari riconvertendosi nel settore turistico e ha da poco ultimato il master in Hospitality 360 presso la Cornell University, dopo il corso in Tourism Management presso la stessa università. Gestisce il boutique hotel di famiglia a Levanto, si occupa di promozione e sviluppo per altre strutture ricettive e destinazioni, è Data Storyteller & Strategist per The Data Appeal Company e per Vertical Media è incaricata delle strategie di marketing e comunicazione di Destination Florence. Nel tempo libero viaggia ed è web writer nel settore travel e scrive un proprio blog di viaggi indipendenti in solitaria.

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Silvia Moggia

Italo-argentina cresciuta alle Cinque Terre, laureata in Conservazione dei Beni Culturali e specializzata in Francia in Mediazione Culturale e Gestione dello Spettacolo, dopo un anno presso l’agenzia internazionale IMG, ha iniziato a lavorare alla direzione della programmazione e artistica dell’Opéra di Parigi nel 1998 per poi essere nominata direttrice di produzione e programmazione al Palau de les Arts Reina Sofia di Valencia nel 2005. Dal 2011 è tornata in Italia per motivi familiari riconvertendosi nel settore turistico e ha da poco ultimato il master in Hospitality 360 presso la Cornell University, dopo il corso in Tourism Management presso la stessa università. Gestisce il boutique hotel di famiglia a Levanto, si occupa di promozione e sviluppo per altre strutture ricettive e destinazioni, è Data Storyteller & Strategist per The Data Appeal Company e per Vertical Media è incaricata delle strategie di marketing e comunicazione di Destination Florence. Nel tempo libero viaggia ed è web writer nel settore travel e scrive un proprio blog di viaggi indipendenti in solitaria.

One Comment

  • Antonio Polesel ha detto:

    Ottima analisi le conclusioni che l’area citata non sia inclusa perchè i picchi non sono costanti mi lascia perplesso invece , penso che se non si mette in campo una forte volontà comune che porti ad inversione di tendenza ci sarà ben presto una crisi di rigetto…sono curioso di leggere il caso Dubrovnjck …

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